È arrivato questa mattina, una specie di Natale, penso mentre scarto la carta con il cuore bambino della gioia eppure con un ghigno di tenerezza, scherno per me che non so non consegnarmi a queste piccole felicità di carta, una resa totale che guadagna la quiete delle furie, almeno qualche ora.
È in perfetta condizione, la copertina non mostra alcun segno di usura sulla pacatezza del viola, la brossura serrata e lo spessore delle pagine solo lievemente ingrigito nell’angolo in basso, luogo per pollici, penso mentre considero che l’indice più facilmente affonda e solleva e spinge la pagina dall’angolo opposto, quello che fa freccia verso l’alto.
Ho aperto: una specie di sospiro dalla morbidezza carnicina delle pagine e un sollievo del mio petto, come per una distanza finalmente azzerata. Volere e avere, trovare e prendere possesso, assoggettare, assorbire, assimilare. Eppure, una luce impossibile, e poi un colore, e poi ancora uno. Sottolineature, molte e in molte pagine. Con pastelli arancione e verde chiaro. Frasi, interi periodi. Gli eserghi. La bibliografia, con trattini lievi, a sinistra dei titoli, a matita o in rosa. Una contabilità dell’essere e dell’avere, della volontà e della memoria. Un inventario di silenzi lontani, irraggiungibili. Un futuro anteriore di silenzi oltre il tempo sorridente di un incontro: il silenzio di una donna intenta in lettura, il suo silenzio pensoso vicino a una luce fioca, notturna; e nella risalita del pensiero, nel lavorio senza riposo che schiude e diluisce in sonno, il pulsare inudibile della tempia sul cuscino; nei giorni, silenzio di libreria, ricetto di polvere e lepisma. Finché anni dopo, mani di buon senso e concretezza, l’estraneità che sgombera, riunisce e separa, compra e azzera il tempo: usato in vendita.
Non Natale, dunque, ma Festa dei Morti: doni per cuori giovani da parte di chi è stato qui prima di noi per un tempo senza ambizione né solennità, un tempo domestico, segnato con la matita, provvisorio e leggero, pastello del rispetto. Doni per ricordare che nulla davvero mai ci appartiene, che a volte accade invece di appartenere alle cose che passano di mano in mano, mandando avanti segni, come fa con l’acqua la ruota di un mulino.
*
Per la quête che ci sveglia
con la frusta del gelo sulle nuche
per la lingua sepolta ancora viva
per l’osso che il respiro non spezza
mentre fa vento di terra alle spalle
e ci sospinge la radice amara