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Lo spigolo d’una gronda

Uno studio sotto i tetti: un tavolo sospinto vicino alla finestra. Sparse sul piano, sempre fallendo il cerchio di un progetto d’ordine, carte come ferri di nessun mestiere, arnesi di sbozzo d’una materia ruvida e celeste, opaca e porosissima: un lume trema incerto sulle dita. Molte pagine infiammano l’ocra delle pareti, le faville che danzano disegnano vocali maestose: ma un libro sempre aperto dice fate, facciamo, versi di secco orrore e di tremante logica. Dalla finestra alture, la vallata svagata di luci e intermittenze di stagioni di cera: e tuttavia, più prossimo, spezza il sereno lo spigolo d’una gronda.

Libri, ricerche, ruote

libro aperto

 

È arrivato questa mattina, una specie di Natale, penso mentre scarto la carta con il cuore bambino della gioia eppure con un ghigno di tenerezza, scherno per me che non so non consegnarmi a queste piccole felicità di carta, una resa totale che guadagna la quiete delle furie, almeno qualche ora.

È in perfetta condizione, la copertina non mostra alcun segno di usura sulla pacatezza del viola, la brossura serrata e lo spessore delle pagine solo lievemente ingrigito nell’angolo in basso, luogo per pollici, penso mentre considero che l’indice più facilmente affonda e solleva e spinge la pagina dall’angolo opposto, quello che fa freccia verso l’alto.

Ho aperto: una specie di sospiro dalla morbidezza carnicina delle pagine e un sollievo del mio petto, come per una distanza finalmente azzerata. Volere e avere, trovare e prendere possesso, assoggettare, assorbire, assimilare. Eppure, una luce impossibile, e poi un colore, e poi ancora uno. Sottolineature, molte e in molte pagine. Con pastelli arancione e verde chiaro. Frasi, interi periodi. Gli eserghi. La bibliografia, con trattini lievi, a sinistra dei titoli, a matita o in rosa. Una contabilità dell’essere e dell’avere, della volontà e della memoria. Un inventario di silenzi lontani, irraggiungibili. Un futuro anteriore di silenzi oltre il tempo sorridente di un incontro: il silenzio di una donna intenta in lettura, il suo silenzio pensoso vicino a una luce fioca, notturna; e nella risalita del pensiero, nel lavorio senza riposo che schiude e diluisce in sonno, il pulsare inudibile della tempia sul cuscino; nei giorni, silenzio di libreria, ricetto di polvere e lepisma. Finché anni dopo, mani di buon senso e concretezza, l’estraneità che sgombera, riunisce e separa, compra e azzera il tempo: usato in vendita.

Non Natale, dunque, ma Festa dei Morti: doni per cuori giovani da parte di chi è stato qui prima di noi per un tempo senza ambizione né solennità, un tempo domestico, segnato con la matita, provvisorio e leggero, pastello del rispetto. Doni per ricordare che nulla davvero mai ci appartiene, che a volte accade invece di appartenere alle cose che passano di mano in mano, mandando avanti segni, come fa con l’acqua la ruota di un mulino.

 

*

Per la quête che ci sveglia
con la frusta del gelo sulle nuche
per la lingua sepolta ancora viva
per l’osso che il respiro non spezza
mentre fa vento di terra alle spalle
e ci sospinge la radice amara

Maestà delle cose lontane

faro_23

 

Maestà di silenzio di ciò che si scorge lontano. Coniche di correnti che sollevano astri di carta e buste diafane di cellophane, baruffe di aghi e di pinoli e, più in là, scafi a motore e venti che ammaestrano vele, e l’abisso che s’innalza e che ora infuria. I nostri stessi affanni, le voci dei commiati. Maestà crudele e lentissima della lontananza. Coltre di mare immensa di ieratico silenzio. Laggiù, tra ciò che galleggia per l’occhio che lo tiene, nel mare aperto del rumore insensibile, un bagliore di faro. Miglia e miglia marine di silenzio, nodi e nodi di lacrime, nemmeno una parola. Nessuna voce, nessun nome da dare al dolore. Una domanda d’aria che ci accerchia la casa. Un bagliore di faro accerchia ogni domanda. Guarda, si fa più chiaro ora che tutto è tenebra. Un intervallo: per metà luce e per metà apnea.

 

*

per f.

È notte. Guarda come dal tonfo
i cerchi: ora tornano indietro.
Tra pareti di grandine
animali impagliati a bocca aperta
tigri o leonesse o solamente lepri
ci hanno strappato il cuore
messo gli occhi di vetro
a guardia di nessun fuoco
mentre la casa non vuota ma vento
e distruzione e furia dai vetri rotti
e letti aperti e specchi spalancati
a nessun volto mentre ogni domanda
trema
nella credenza.
La chiave nel frastuono che morde
e urla, la chiave non si vede.
La notte ha abbattuto la porta:
ora non puoi entrare. Ora soltanto
un alito di faro
su una piccola mano
chiusa a pugno
rimpicciolita.

lèggia

 

Madre e figlio di Pablo Picasso - ADO Analisi dell'opera

Certi giorni il dialetto inizia discorsi e si muove come una tenda che scosta il buio da una vecchia porta su cui nocche di tempo hanno inciso passaggi e aspettative, mai un ritorno. Tra odori di frutta e il freddo dei grandi secchi di zinco dove l’acqua conserva la sua voce per nessuno, certi giorni nessuno torna a prendere un bicchiere, ad affondare a riempire. Nessuno beve, né terge il sudore col dorso della mano, nessuno si fa sul vano, strizzando luce e ciglia, nessuno prende un paniere lasco e un coltellino, poggia sul sedile di pietra sotto l’antica pergola il bicchiere, accosta l’uscio e scende per verdure.

 

e ch’era lèggia e comu
nna facci ti rirìa u me’ pinzeru
spaddi appuiati all’ùmmira
e vrazza ‘ all’arbariari

‘a rapìa tu, a campagna
tutt’ammargiata i suli nfacci ‘u mari
iu c’a mirudda frisca
e tu, cu l’ali nuri
fossa fossa già tannu
senza tuccari terra siminavi

e come eri leggera e come/in faccia ti rideva il pensiero di me/spalle appoggiate all’ombra/e braccia rivolte all’alba/l’aprivi tu, la campagna/tutta imbevuta di sole di fronte al mare/io con la mente serena/e tu, con le ali nude/per i fossi già allora/senza toccare il suolo seminavi

Qualcuno ha diserbato

Questa mattina, nell’afa che faceva peso ai gesti, con insistenza un uomo ha ripulito un giardino che appare solo dopo la cura e per un tempo breve: le erbacce ne riprendono possesso entro la fine dell’estate, coprono terra e aiole, persino i sedili in legno sono come inghiottiti dalla macchia. Un salice un arancio e un alberello esile, dal fogliame perenne e amaranto, dal lato che si offre alla finestra della mia cucina, danno come le spalle all’abbandono: lo sanno, però, e non lo perdonano. Pure, un sorriso mesto, per chi chiede: e un arpeggio di luce porta avanti stagioni come frutti.

Questa mattina, nel giusto soppesare di parole e gesti, con resistenza una donna ha ripulito un campo di parole, poi ha spuntato crescite scomposte, ristabilito innesti, e fatto emergere camminamenti e pietre seminascoste all’occhio frettoloso. Dal mio vetro parziale, luce di sentinella e voce di giustizia. Non perdonato oltraggio alla memoria, non polvere non cenere: un sorriso. E un colpo di pagaia più deciso, un impulso al suo legno più pieno, trascinando la luce fino a me che non so. Per me, e per chi chiede. Per chi nuota. Per chi spera.

*

Qualcuno ha diserbato
oggi, al di là dei vetri
nel rumore del tenero e dell’arso
per un momento in gloria

al decespugliatore
per ciò che restituisce di serbato
per quel filo che unisce
il vero allo stupore
l’odore ai déjà-vu
e l’ingiuria alla nemesi
della memoria

per quella lontananza trascinata
un debito degli occhi
un riapparso durare

Voci

Occorre sia rabbiosa
o ironica o salace,
mordace: ancora meglio.
Onnivora e mai doma.
(La voce: mite annoia
s’è comprensiva abbocca
se rispetta è buonista
se tace è pilatesca o qualunquista).

Orribili falene,
e quanto vi illudete illuminate!
Le enormità buccali spalancate
a nugoli sull’ultimo sciamare
stagione breve, più breve fiamma alare.

i rossi della sera


il tufo squilla i rossi della sera
culla ombre oleose di vapori

brullo silenzio e marea arenaria
di grumi di lucore e occulti mandorli

l’etere suona il tempio plettro e voce
e la pietra cordofona decripta

il divino frammento della luce
la scintilla di lei sottratta al caos

Posto di vacanza

Quella forzosa torsione del tronco
le mani dell’uomo avranno messo tempo
mi dicevo – potenza e proiezione e forse gioco
e più dell’idea di gioco, forse
torceva tormentava
la risonanza interna di quel gesto
l’ubbidienza fermata dentro il legno, il gesto dentro il legno,
oltre il tempo miserrimo di un uomo
quel suo gioco contorto
sopravvissuto

Un pergolato spoglio e spoglio il giorno e io
là di passaggio, e pochi come me sottratti al sonno
l’ora in meno di buio – ma qui, oggi di più
cova una luce inutile e coperta
nel villaggio montano (lo era, un posto di vacanza)
l’ora nuova ha deluso, si replica domani

È che leggo Sereni ormai da giorni, o più che altro
è una stura e mi allaga, in quest’ernia di tempo nella luce di calce
le spalle alla montagna – e anch’io a un mio male
interno a una torsione innaturale, io dunque
come quel tronco in ferma e in obbedienza
in che osservanza: e il fianco oltre la coltre a piombo
il verde lascia intuire ingiurie
le reiterate arsure, le incursioni dei torti, il nero immitigabile
il dolo sotto l’erba, chiuso, e come chiodi
i radi i nuovi abeti, inquieti
i nati e condannati
alla luce di chissà quali acri
future messe a fuoco

E dalla chiesa, in questa bolla, mio figlio che ora esce
lo aspettavo
e l’arco riflesso posa e mi solleva
il cenno di saluto

(inedito, marzo 2017)

forse è questo

*

Qualcuno mi insegnò a stendermi
ad attendere
come da dentro il buio di uno scafo
o nell’esuvia persa di un insetto scampato
a se stesso o all’uomo
e aveva voce terrea come suola
stenditi e aspetta l’onda, vento diceva
o fuoco o lama, e non rialzare il capo
non far voce di corda
fino a che non rischiara.

La morte forse è questo
credersi vivi e stesi come in sonno
ma i morti come gridano esortandoci
e il loro errore – il loro orrore
di noi

(foto Ray Collins, Water & Light, fonte web)

amen

*

non tutti uguali i feretri
nel mio triste villaggio
solo su alcuni rende
appoggiarvi il cappello e cavalcare
l’onda dello sgomento fino al picco
fino al ripiegamento che la smonta
e dopo solo un amen

non uguali le donne
nel mio villaggio d’uomini
non ci sono parole per gemmare
Giustizia a primavera e il femminile
oscilla senza nome
tra un “se l’è cercata”
e un “lui l’amava troppo”
e sopra un altro amen

non sono uguali le acque
nel mio villaggio in secca di orizzonte
acque di terra uccidono per scempio
le acque di mare tacciano le braccia
vietato dare avviso ai naviganti
questo è il mio corpo a volte alla domenica
tra costato e costato un sale freddo
tra costa e costa amen

*

foto: A desert village, fonte web

Scrivere, amico mio

scrivere, amico mio
perché un cedro è in attesa del suo nome
per diluire l’odio
e il latte nero
per dissipare il gelo sulla lingua
abbandonata ai cani che la sbranano

la stella che guardiamo
non è che ghiaccio e polvere
eppure ci precede
come un latte di nomi
pegno tradotto in salvo
da chi non ha taciuto

scrivere, amico mio
incidere la pena fino al latte
graffiare in vivo i muri
mentre premi l’orecchio
il freddo sulla guancia
ne previene il rossore

foto: Cibitoke prison in Prisons in Africa: ‘The Dungeon’, Burundi Jails di Nathalie Mohadjer